E’ tutta una corsa contro il tempo. Chiamano dal centro
commerciale e immediatamente vi date da fare col telefono per trovare qualcuno in
più che vi dia una mano; in due, infatti, non ce la fareste a portare via tutta
quella roba. Perché dovete farvi vivi nel giro di un paio d’ore, se no si
arrangiano in qualche altro modo. Se un paio di volontari sono liberi, dovete
poi organizzare i prodotti: verificare che la bolla sia a posto, fare lo
scarico della merce accertando il numero di confezioni e la grammatura,
valutare i tempi strettissimi – a volte una manciata di giorni - che vi
separano dalla data di scadenza impressa sulle confezioni.
E se si tratta del
cosiddetto “fresco”, quello non confezionato, non si può perdere neanche un’ora:
portare le ceste nel centro parrocchiale o nel locale che vi ha dato il Comune,
separare la merce che sta deperendo da quella distribuibile, avvertire le
famiglie di far presto: stasera al massimo, dalle cinque alle sette, se si
vuole arrivare con qualcosa in tavola. Ma se per caso l’insalata è una montagna,
bisogna far di necessità virtù e chiamare anche gli altri centri vicini,
chiedere loro di affrettarsi per venire a ritirare a loro volta il cibo per le loro famiglie. Altre corse, altri
passaggi di mano, chiamate frettolose per fare in modo che il cibo possa andare
a segno, raggiungendo anche questa volta le famiglie che in quartiere fanno più
fatica.
In questi tempi di crisi le iniziative di distribuzione del
cibo alle famiglie indigenti si stanno moltiplicando. Ne ho la riprova questa
sera, circondato dai volontari Caritas; tutti hanno la loro attività e la
descrivono con passione: le convenzioni con la grande distribuzione, le decine
di volontari disponibili, i numeri importanti delle famiglie che ciascuno segue.
C’è chi distribuisce solo cibo confezionato, chi si è buttato
sul “fresco”, chi si è specializzato nella distribuzione del pane; e poi i
piccoli investimenti per far funzionare il tutto: macchine e van, freezer e
celle frigorifere, le borse lavoro per retribuire le persone - anch'esse scelte
tra i vulnerabili - che aiutano i volontari in questo continuo e frenetico
andirivieni.
L’immagine che mi si para davanti è quella di un grande
formicaio, sempre in attività, ma nascosto alla vista dei più; ogni tanto, se
abbassi lo sguardo, puoi scorgere la singola formica con la sua enorme briciola
sul dorso, oppure - se sei più fortunato - qualche fila indiana indaffarata nei
due sensi di marcia.
Questo andare di fretta, questo correre ha un sapore molto
contemporaneo, ma al contempo l’attività della distribuzione diretta del cibo
ai “poveri” ha un retrogusto davvero antico. Chi l’avrebbe detto, solo un paio
di decenni fa, che questo tipo di iniziative avrebbe ripreso fiato in una
maniera così importante? Ci sono stati tempi non lontani in cui poteva
legittimamente apparire una pratica ormai sorpassata, buona per le dame
sfaccendate della borghesia illuminata: paternalismo, concessione, elemosina.
E invece oggi questo stesso darsi da fare acquista un segno
completamente diverso: nel loro piccolo, senza fare discorsi o inseguire utopie
rivoluzionarie, questo formicaio depone concretamente i suoi bei punti di domanda accanto al nostro
stile di vita, al cibo che gettiamo ogni sera dal retro dei negozi e
soprattutto nei cassonetti della grande distribuzione.
Diventa un segno di contraddizione, che attiva parole come
riutilizzo, riduzione dello spreco, rispetto del pianeta, nuova economia dello
scambio e della solidarietà.
Parole al passo coi tempi.

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