Ci sono giorni – ma anche settimane - sopra cui veleggi
placido, trascinato dalla corrente. Abitudine, mestiere, superficie. Poi un
incontro, il passo di un libro e senti improvvisamente che la cima si tende, la
corrente accelera. Sei trascinato in profondità, e ti vergogni un po’ del
pilota automatico che ti aveva condotto fino a poco prima. E’ successo così
anche per l’incontro con Piergiorgio Reggio, che è venuto a presentare ai
volontari dei doposcuola il suo ultimo libro: “Lo schiaffo di don Milani”.
Abbiamo ripercorso insieme la vicenda del
prete di Barbiana e siamo stati guidati a riconsiderare più da vicino le radici
di tante nostre esperienze sociali. Ma abbiamo dissotterrato anche le nostre di radici, quella chiamata a
distanza, nel tempo e nello spazio, che molti di noi hanno sentito da parte di
don Lorenzo; allora si è fatta avanti una domanda quasi inevitabile: che cosa è
rimasto degli insegnamenti di Barbiana dentro e attorno a noi? Anche i nostri
servizi hanno attivato il loro pilota automatico?
Quel che è certo è che il mondo che circondava la scuola di
don Milani è scomparso quasi del tutto: le ideologie contrapposte, la Chiesa
pre-conciliare, i partiti di massa, il sindacato come strumento di emancipazione
e non come difesa corporativa, il contesto operaio e contadino degli anni
sessanta. Stravolti la scuola, il mondo del lavoro, le forme della
cittadinanza.
Ma allora, è ancora attuale quello “schiaffo”? Ha ancora
senso richiamarsi a quell’esperienza così lontana? Sì, ci dice Piergiorgio
Reggio, se consideriamo quello di Barbiana un mito: “Il mito di Barbiana ci riporta alle origini dell’atto di educare,
racconta della creazione di un modo diverso, alternativo di fare scuola, di
imparare e di insegnare. In esso è contenuta l’idea che il sapere può servire
non solo per avere successo individuale a discapito degli altri, ma per
contribuire a fare il mondo meno ingiusto di come è. Come ogni mito, anche
quello di Barbiana possiede un fulcro; in questo caso, il fulcro è la
conversione radicale dell’educazione da strumento per discriminare, per assegnare
le persone a ruoli sociali predefiniti, per selezionare, a fattore di sviluppo
dell’autonomia personale, della promozione sociale e della costruzione di una
società più giusta”.
Il nesso tra educazione e giustizia, dunque, è ciò che fa della figura di don Milani un punto
di riferimento. Proprio da qui nascono gli interrogativi che ancora oggi
possono svegliare i nostri servizi e i nostri progetti dal torpore in cui
spesso cadono. Quanto consapevolmente sono orientati a ridurre le ineguaglianze
e quanto invece a riprodurre percorsi di conformità? Sono attraversati
dall’intenzione di far crescere coscienze critiche? Promuovono scrittura e
conoscenza collettiva o sono diventati incubatori di imprese individuali? Riescono a problematizzare, nel senso di
porre problemi a coloro che incontrano? Sanno essere politiche, sanno cioè
trasformare le contraddizioni della vita quotidiana, le ingiustizie e le
discriminazioni da problemi individuali a questioni sociali e pubbliche?
Schiaffi, almeno secondo il mio modo di vedere; e qualche
volta pugni nello stomaco delle nostre imprese sociali strutturate e
standardizzate.
Ma vale anche per noi la raccomandazione che don Lorenzo fece
ai suoi ragazzi: “Fate scuola, fate
scuola. Ma non come me, fatela come vi richiederanno le circostanze. Guai se vi
diranno: il priore avrebbe fatto in un altro modo. Non date retta, fateli star
zitti, voi dovrete agire come vi suggerirà l’ambiente e l’epoca in cui vivrete.
Essere fedeli a un morto è la peggiore infedeltà”.

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