Mettere in cerchio tante persone che non si conoscono e che
hanno un’esperienza da comunicare, produce (quasi) sempre qualcosa d’interessante.
Se poi il gruppo è partecipato come quello di oggi, che il cerchio appena nato
si deve allargare e deformare nel tentativo di fare spazio a tutti, allora la
cosa si fa più che stimolante. Il convegno è organizzato dall’Ufficio per la
Pastorale dei Migranti della Diocesi Ambrosiana per far confrontare tante
esperienze diffuse nei territori e ricercare le buone prassi d’inclusione. Il
cerchio è infatti composto da rappresentanti di gruppi, associazioni,
parrocchie e centri d’ascolto impegnati nel promuovere, appunto, attività per l’inclusione
di persone straniere/migranti, nelle forme più diverse.
Si comincia da quattro esperienze pilota e poi si allarga il confronto, cercando di raccogliere esperienze e punti di vista che arricchiscano il quadro, suggeriscano strade, facciano intravedere agli altri possibilità di innovazione. Come spesso accade, il giro d’orizzonte che gli interventi producono mi impressiona per la sua ricchezza e per la sua multiformità. Un inno alla creatività e alla generatività del mettersi insieme: c’è il gruppo degli scout che organizza letture ad alta voce per badanti e anziani, chi insegna l’arabo alle maestre perché si possano destreggiare con più facilità nelle sempre più diffuse classi interculturali, ci sono i volontari che dentro il carcere cercano di seguire gli itinerari umani dei detenuti stranieri irregolari e i custodi sociali che promuovono inclusione tra gli inquilini dei grandi palazzoni popolari. E poi chi sviluppa housing utilizzando abitazioni messe a disposizione da privati e i privati che hanno “prestato” la loro casa per l’accoglienza diffusa nelle parrocchie; infine tanti volontari delle scuole d’italiano parrocchiali e gli operatori che aggregano e animano le collaboratrici domestiche, per lo più straniere, che lavorano nelle case di molti di noi.
Oliviero Motta
Si comincia da quattro esperienze pilota e poi si allarga il confronto, cercando di raccogliere esperienze e punti di vista che arricchiscano il quadro, suggeriscano strade, facciano intravedere agli altri possibilità di innovazione. Come spesso accade, il giro d’orizzonte che gli interventi producono mi impressiona per la sua ricchezza e per la sua multiformità. Un inno alla creatività e alla generatività del mettersi insieme: c’è il gruppo degli scout che organizza letture ad alta voce per badanti e anziani, chi insegna l’arabo alle maestre perché si possano destreggiare con più facilità nelle sempre più diffuse classi interculturali, ci sono i volontari che dentro il carcere cercano di seguire gli itinerari umani dei detenuti stranieri irregolari e i custodi sociali che promuovono inclusione tra gli inquilini dei grandi palazzoni popolari. E poi chi sviluppa housing utilizzando abitazioni messe a disposizione da privati e i privati che hanno “prestato” la loro casa per l’accoglienza diffusa nelle parrocchie; infine tanti volontari delle scuole d’italiano parrocchiali e gli operatori che aggregano e animano le collaboratrici domestiche, per lo più straniere, che lavorano nelle case di molti di noi.
Un florilegio di generosità e d’inventiva, collegato dallo
sforzo intelligente di promuovere integrazione tra persone, culture, lingue e
linguaggi differenti. Il tutto, manco a dirlo, sotto traccia; non visto – se
non raramente – dai pigri e miopi radar dell’informazione mainstream.
Mi fermo un secondo a considerare questa ricchezza nascosta e
la metto a confronto con l’aria che tira, in particolare con i tentativi
diffusi e striscianti di criminalizzare la solidarietà nei confronti degli
stranieri e le organizzazioni che si sforzano di promuoverla.
Qui non abbiamo “Medici senza frontiere” o qualcun’altra
delle grandi e dotate organizzazioni non governative. Si tratta invece di una
rete di attività basate sul mero volontariato, affiancate al più da pochi
operatori sociali professionali. Queste esperienze in realtà non si possono
nemmeno definire “rete”, perché non sono collegate se non in maniera
intermittente e saltuaria; tanto è vero che il convegno di oggi vuole proprio
rappresentare uno dei primi momenti di contatto e dialogo. Più che una rete, si
tratta di una costellazione di iniziative: e proprio come una costellazione,
emerge una figura riconoscibile solo se tiri delle linee immaginarie. Se no,
rimangono puntini più o meno prossimi gli uni agli altri, senza legami.
Questa costellazione, che si vede solo nel buio fitto, saprà in
futuro resistere meglio alla criminalizzazione della solidarietà dei suoi
cugini super-organizzati? O al contrario, la sua dispersione la condannerà alla
definitiva irrilevanza e quindi alla scomparsa?
Interrogativi inquieti, ai quali rispondo con un'altalena tra
ottimismo e pessimismo…cosmico.
Arrivando alla conclusione che se le costellazioni sono
proiezioni della fantasia dell’uomo, le stelle sono lì da miliardi di anni.
Resistenti e resilienti, ad indicare la via.
Il cerchio rappresenta la protezione e viene usato per aprire sane relazioni sociali generando solide allenze e nel contempo è usato anche dalla criminalità organizzata dalla massoneria per accerchiare i loro bersagli intelligenti. Il branco fa cerchio per aggredire anche alle spalle.
RispondiEliminaC'È una differenza sostanziale in queste due tipologie di cerchi, l'intelligenza ha la resilienza come le stelle e le costellazioni