Ma assieme
all’idea della “misurazione” della vulnerabilità, è cresciuta anche la percezione
che come operatori sociali avessimo bisogno di uno strumento che facesse anche aumentare
la consapevolezza della vulnerabilità sociale. Avevamo e abbiamo bisogno cioè
che di vulnerabilità, di fragilità dei legami e delle proprie relazioni si
possa parlare con maggiore libertà, proprio perché la comunicazione con le
persone – e qualche volta persino con alcune parti misconosciute di noi stessi
– contribuisce a propria volta ad aumentare la possibilità di intessere nuova
socialità. E ricevere nuovi aiuti, se necessari.
Ci siamo
allora messi al lavoro per costruire questo benedetto questionario; perché ci è
stato chiaro fin da subito che dovesse essere uno strumento “popolare”, non ad
uso di una ricerca più o meno scientifica, ma utile a ciascuno per pensarci su
e per diventare più consapevoli.
E’ stato un
bel lavoro di gruppo, fatto di brainstorming e di fine ricerca della parola
giusta, della domanda più chiara possibile, delle risposte più efficaci
nell’aprire squarci di verità nel corso della compilazione. Cervelli fumanti,
confronti qualche volta spigolosi tra noi, idee apparentemente geniali che alla
riunione successiva si rivelavano assai carenti e deludenti.
Alla fine ne
è venuto fuori un test di diciannove domande che spazia dalle cartelle
esattoriali incomprensibili, all’individuazione di qualcuno a cui chiedere un
consiglio per una decisione molto importante, dalla propensione a impiegare i
weekend in compagnia a quella a indebitarsi. Domande molto semplici,
confezionate con un linguaggio facile, immediato. In questo ci hanno aiutato
anche i comunicatori di professione, che hanno aggiunto quel tocco di
leggerezza che dovrebbe facilitare la compilazione e il calcolo dei punti. A
sua volta il punteggio finale rimanda a quattro profili di fragilità sociale,
dal meno problematico a quello che deve stare un po’ all’occhio in caso di life events ostili.Da poche settimane è cominciata la sperimentazione nei laboratori di comunità che il progetto ha messo in piedi nei centri civici diffusi nel territorio; vediamo se funziona e se è in grado di generare gli effetti sperati. I primi segnali sono confortanti – in linea di massima le persone si divertono a compilare il test e ne ricavano piacere – ma anche preoccupanti: ci sono persone che si sentono un po’ minacciate anche solo dal titolo (“Ma ce la fai?”) e evitano di terminare il calcolo dei punteggi determinati dalle risposte.
Vediamo, può
darsi che la paura di sentirsi e mostrarsi vulnerabili sia ancora più forte di
quello che pensiamo. La compilazione in gruppo, attenti a riflettere insieme
piuttosto che a misurare la condizione di ciascuno, potrebbe essere una scelta
metodologica obbligata. Per aprire un varco e magari scoprire, insieme, che la
vulnerabilità non è una malattia da nascondere, ma un dato della nostra comune
umanità.
Oliviero Motta
mi trovo in una zona dell'Italia centrale - maceratese - dove ho sempre visto persone con una cd vita regolare e tranquilla (casa lavoro famiglia rete amicale ecc)che hanno dei comportamenti molto strani, molestano, fissazione di sguardi, sbirciano nella borsa, nel carrello della spesa, rubano oggetti (reati predatori prevalentemente femminili), inveiscono anche in luoghi pubblici contro enti quali provincia - regione ecc abbaiano anzichè parlare come le persone normali, urlano anche in luoghi pubblici e tanti altri comportamenti asociali. in questo caso il test è assolutamente inutile perchè pur avendo una oggettiva tranquillità esistenziale mandano segnali forti di disagi.
RispondiEliminaAbbaiare come cani anzichè parlare è già un segnale di disordini mentali.